La chiamavano spagnola ma venne dal mare
di Angelo Nataloni.
Poco più di cento anni fa la Grande Guerra stava per finire, ma un’altra era pronta ad incominciare: più subdola, più insidiosa, più difficile da combattere e in grado di fare più morti delle cannonate e degli assalti ai reticolati. Contagerà e ammazzerà popolazioni già provate, indebolite e affamate. Sarà chiamata “influenza spagnola” o “grande influenza”. Più atroce della peste del 1348, più assassina dell’AIDS (si dice abbia ucciso più persone in 24 settimane che l’AIDS in 24 anni) o di qualsiasi altra pandemia di cui si abbia memoria. Pur tuttavia, come vedremo più avanti, fu però sminuita durante la sua devastante diffusione e poi fatta cadere nell’oblio.
Ma andiamo con ordine. L’11 marzo 1918 in un sovraffollato campo di addestramento in Kansas (Stati Uniti) vengono ricoverati 107 pazienti per un attacco di influenza violentissima di cui non si conoscono le cause (sarà il primo focolaio ufficialmente riconosciuto). In un tempo brevissimo, l’infezione si propaga a 26.000 persone alloggiate nelle baracche. Gli scampati vengono mandati a combattere in Europa sui vari fronti e diventano portatori sani del virus che si diffonde velocemente in tutto il mondo. La prima a parlarne fu la stampa iberica, sia perché 100.000 madrileni si ammalano a maggio tra i quali il re Alfonso XIII, sia perché essendo la Spagna neutrale durante la Prima Guerra Mondiale, la sua stampa non è soggetta alla censura di guerra. Negli altri paesi il violento diffondersi dell’influenza viene deliberatamente tenuto occultato dai mezzi d’informazione che semmai ne parlano come di un’epidemia circoscritta alla penisola iberica. Ecco quindi spiegato il nome tutto sommato errato di “Influenza Spagnola”. Del resto, anche il termine “influenza” è originario della Spagna: davanti alle febbri alte che portavano alla morte, gli scienziati medioevali iberici non trovarono altra spiegazione che parlare di “influenza del Diablo”. Dal canto loro, gli stessi spagnoli pensano invece che la nuova malattia arrivi dalla Francia e la chiamano “influenza francese”.
In trincea le baracche sono il terreno favorevole per il propagamento dell’epidemia. Particolarmente colpite sono da subito le truppe neozelandesi ed australiane in Gran Bretagna. Nell’esercito austriaco l’incidenza della mortalità sarà quasi tripla rispetto all’esercito italiano: gli austriaci, impegnati su diversi fronti, sono esposti a più focolai. La loro dieta a base di carne (quando c’è), sebbene appaia più energetica di quella del nostro esercito, è invece carente di vitamine che noi italiani assumiamo grazie a maggiori quantità di frutta e verdura e che oggi sappiamo siano indispensabili a formare le difese immunitarie. Sarà comunque un episodio complesso che durerà più di un anno, tra il marzo del 1918 e l’estate del 1919, con delle ricadute durante il 1920 e il 1921. Tre fasi hanno scadenzato la pandemia iniziale: una prima, caratterizzata da un’elevata morbilità[1], con carattere moderato, ma molto contagiosa anche se relativamente “benigna”, che perdurerà dal marzo al luglio del 1918. I principali sintomi della “Spagnola” sono simili a quelli di altre malattie influenzali (mal di testa e dolori muscolari, stanchezza, apatia, brividi, tosse, febbre alta con temperature che superano i 40° C per uno o due giorni. Nei casi più gravi degenera in polmonite con febbre emorragica e colorazione nero-bluastra (cianosi) della pelle, risultante dalla mancanza di ossigeno. La morte di solito si verifica dopo pochi giorni di malattia, principalmente a causa dell’infezione batterica secondaria.
La seconda fase si diffonderà dall’Europa in tutto il mondo a partire dal mese di agosto e sarà quella devastante. Si tratta certamente della stessa influenza perché chi supera la prima ne risulta immune, ma il ceppo è mutato in forma più micidiale con un tasso di letalità decuplicato. I primi sintomi sono sempre quelli classici appena citati, ma le complicazioni polmonari si moltiplicano e colpiscono soprattutto i giovani adulti (15-45 anni). Una terza ondata interesserà di nuovo molti paesi tra il febbraio e l’estate del 1919. Ma risulterà meno letale: probabilmente aveva subito una mutazione rapida verso una forma meno grave, un evento comune nei virus patogeni, poiché gli ospiti dei ceppi più pericolosi tendono a estinguersi.
I sopravvissuti sono contrassegnati da grave affaticamento, esaurimento cronico, spossatezza prolungata, depressione e frequenza cardiaca mediamente ridotta. Molte persone soffriranno di disfunzioni neurologiche per il resto della loro vita.
Contagerà circa 500 milioni di persone (il 30% della popolazione mondiale che allora era 1 miliardo e 600 milioni). Il bilancio di vittime sarà terribile. Diversi studi lo collocano tra i 50 e i 100 milioni di morti con enormi diversità da paese a paese. L’Asia pagherà il prezzo più alto con 30 milioni di morti, di cui 18 milioni in India.
In Europa (Russia compresa) si conteranno ufficialmente più di 3 milioni di morti di cui 250.000 in Francia e 700.000 in Italia, ma è più probabile 1.000.000[2] (molti più della guerra stessa). Dilagherà in quasi ogni parte del mondo dall’Artico alle remote isole del Pacifico (solo poche isole sperdute come Sant’Elena o le Samoa americane sfuggiranno al flagello).
In Italia il primo allarme viene lanciato a Sossano (VI) in pieno agosto 1918 quando un capitano medico dirigente del Servizio sanitario dei reparti d’assalto invita il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo. Scatta l’emergenza, anche se si capisce in ritardo che non si tratta di tifo, ma della ben più terribile “Spagnola”. Milano è una tra le città più colpite: già nel settembre 1918 si registrano 850 decessi, 3.000 in ottobre, 800 in novembre, 900 a dicembre per un totale di 5.500 vittime in venti settimane. Le cifre del contagio in Italia sono impressionanti, una vera strage. Nel solo mese di ottobre, quello di maggiore diffusione e virulenza, muoiono oltre 240.000 persone. In settembre i decessi erano stati 78.000. A novembre passeranno a 120.000. La Spagnola colpisce più gli uomini delle donne anche se statisticamente le più vulnerabili di tutti sono le donne incinte con un tasso di mortalità compreso tra il 23% e il 71%. Non ci sono medici, il regime alimentare è poverissimo, soprattutto di vitamine, essendo quasi tutta la frutta e la verdura destinata al fronte. Talvolta si muore ancora prima che venga formulata la diagnosi. Il sovraffollamento dei locali abitativi dove si vive anche in venti di tre generazioni, contribuisce alla diffusione della malattia. Per esempio, l’indice della mortalità tra i profughi sarà superiore a quello della popolazione residente.
Al fronte si tace se non altro perché siamo nel pieno dell’organizzazione della controffensiva del Piave. Ma fin da subito si presenta in maniera molto virulenta e il pericolo di contagio fa sì che i soldati ammalati siano trattati alla stregua di appestati, così come appare da questa testimonianza (un po’ sgrammaticata) tratta dal diario del soldato Silvio Piani di Imola (BO), 7° Reggimento Alpini Belluno: “Dopo un paio di settimane mi è venuta la febbre, eravamo in 2, ci anno portato alospedale da campo n° 305. Si anno messo nella camera mortuaria. Perché cera fuori delle febbre che si moriva in 2 giorni. Una rete senza materazzo con uno sporco cusino senza federa, e poi ci anno chiusi dentro a chiave. A me la febbre mi stava passando, ma al mio povero amico ci omemtava. Alla notte mi chiamava che voleva un po’ daqua, eravamo senza luce, o provato di acendere fiammiferi per vedere se ce nera, non ne ò trovato, o provato a batere nella porta ma nessuno mi a risposto. Ci sono andato li vicino e poi ciò detto – aqua non ce né – . Lui mi a risposto – adesso chiamo mamma – Dopo circa unora non a più detto nulla. Mi a fatto tanto piangere, era un mio amico, della mia classe di 19 anni. Quando alla mattina sono venuti à aprire la porta anno preso su il morto e poi sono andati a sepelirlo. Io senza dire nulla sono scapato e poi guardavo dietro che avevo paura che mi venissero a prendere. Il mio reparto era distante 2 chilometri, o fatto tutta una corsa. Alla mattina dopo sono tornato in trincea”.
Non riuscendo a trovare una cura efficace, l’unica precauzione (potendo) è rappresentata dall’immediata quarantena e dall’uso delle mascherine come documentato dalle tante foto d’epoca. Vecchi e nuovi rimedi finiscono per incrociarsi. Superstizione e scienza si accavallano, ovviamente senza risultati. C’è chi consiglia come cura il tabacco da fiuto, chi impacchi di aceto bollente, chi zucchero nel latte bollente.
Ma in Italia come ci comportammo? I dati di diffusione e mortalità ci dicono che riuscirono a proteggersi di più le popolazioni che erano state informate in modo corretto e tempestivo e che avevano assunto precocemente determinati comportamenti, come l’evitare raduni o l’adottare specifici accorgimenti igienici e di protezione, come per l’appunto le mascherine. Non potendo introdurre il “distanziamento sociale” in trincea (probabilmente molto gradito) e neppure il “lock down”, in virtù del fatto che la produzione industriale era quasi a completo supporto della guerra, né tantomeno garantire una copertura sanitaria dato che le risorse mediche erano riservate allo sforzo bellico, non restarono molte frecce al Governo italiano, fermo restando che anche gli altri paesi europei in guerra non fecero certo di meglio (tutti i paesi belligeranti tesero a minimizzarla e a dare solo poche indicazioni comportamentali di massima). Alla popolazione civile le nostre autorità politiche rifiutano di dare istruzioni generali, rimandando ai Prefetti o ai Comuni il compito di chiudere scuole, teatri, cinema, negozi o sospendere eventi sportivi, qualora necessario. Vari sindaci raccomandano tra l’altro di non prestare libri, di non andare dal barbiere, di evitare strette di mano! In realtà il paese si fermerà per mancanza di personale. Il numero dei malati è tale che le scuole non possono più funzionare, le fabbriche girano a rilento e nei campi i contadini si contano appena. A mezzo stampa vengono diffuse norme igieniche individuali non molto dissimili da quelle di oggi, come “Lavarsi sovente le mani senza ricorrere a disinfettanti; il sapone e l’acqua sono i migliori detersivi della pelle” – “Non portare a casa abiti da lavoro” – “Astenersi, se non per necessità, dal visitare malati, convalescenti o morti” – “Evitare gli agglomeramenti delle persone” – “Chi dirige sorvegli sull’igiene interna” – “Chi avverte mal di capo, mal di gola, dolori articolari, malessere generale, brividi di freddo, non persista a lavorare, ma si corichi e chiegga tosto il medico” – “Chi è guarito non abbia fretta di alzarsi o di uscire di casa, potendo ricadere, con gravi conseguenze” – “Non ammettere parenti o amici a visitare, senza plausibile ragione”.
Di lì a poco la guerra terminerà su tutti i fronti e subito dopo la “Spagnola” subirà un meccanismo di totale rimozione, occultata alla memoria dei popoli, in particolare da quelli europei, troppo impegnati ad occupare tutto lo spazio della memoria con i ricordi del conflitto appena concluso. Non si vuole più parlare di morte o almeno si preferisce ricordare soltanto le morti eroiche. C’è anche da dire che l’oblio si spiega con la sua apparizione atipica nella specifica storia delle epidemie e della salute. A quel tempo, soprattutto il mondo occidentale, era nel bel mezzo di una transizione epidemiologica: si stava passando da una mortalità di origine principalmente infettiva (morbillo, dissenteria, dissenteria, ecc.) a una mortalità per malattie degenerative (cancro, morbo di Alzheimer, ecc.). Con le regole d’igiene, dell’asepsi e delle nuove vaccinazioni ci si convinse di aver arrestato le grandi epidemie ancora estremamente mortali nel XIX secolo. Tuttavia le autorità mediche e politiche si erano trovate impotenti di fronte all’epidemia di influenza. Non vollero quindi mantenere vivo il ricordo di un evento che fu per loro un completo fallimento. Si è dovuto attendere la fine del XX secolo per far riemergere l’influenza del 1918-19 in termini di riferimento epidemico.
Sulla sua origine, sulle cause della sua virulenza e sul perché abbia colpito principalmente i giovani, le ipotesi sono tuttora non unanimi e proprio di recente è uscita una nuova ricerca (Back to the Future: Lessons Learned From the 1918 Influenza Pandemic) che ha compiuto una meta-analisi degli studi al riguardo. Solo oggi infatti (anche se non c’è consenso universale) possiamo classificare il virus influenzale della Spagnola di tipo A, la stessa che si evolve provocando la classica influenza stagionale. Gli studi condotti su campioni risalenti all’epoca della “Spagnola” dimostrerebbero che il virus avrebbe avuto origine prima del 1918 quando un virus H1 umano acquisì la neuraminidasi aviaria N1. Una sorta di “salto di specie” che poi si sarebbe adattato all’uomo, acquisendo anche una eccezionale capacità di trasmettersi da persona a persona. Purtroppo, l’atipicità dei sintomi fece sì che all’inizio a molti malati non fosse neanche diagnosticata una influenza, ma qualche altra malattia contagiosa. Le perdite di sangue dal naso e dalla bocca che oggi sappiamo essere dovute alle complicazioni polmonari fuorviarono molti medici. E infatti molti morti, se non la maggioranza, furono a seguito di queste emorragie polmonari. Certamente in molti casi la causa di decesso fu una polmonite batterica secondaria, come d’altronde avviene in molte influenze.
Un gruppo di ricercatori, recuperando il virus dai corpi di vittime congelate, attraverso test animali ha rilevato il presentarsi di una rapida insufficienza respiratoria e la morte attraverso una vera e propria “tempesta di citochine”. Sappiamo che queste sostanze sono normalmente prodotte dalle nostre difese immunitarie, ma un rilascio sproporzionato può causare una reazione immunitaria polmonare eccessiva e di conseguenza determinarne quelle complicanze letali che abbiamo visto. Giovani in buona salute e con un sistema immunitario molto robusto possono avere tempeste di citochine più facilmente di persone con un sistema immunitario debole, come per esempio gli anziani. E in effetti la maggioranza dei morti di “Spagnola” si contò in adulti sotto i 65 anni e più della metà tra i 20 e i 40 anni.
Una volta ritrovato e ricostruito il virus responsabile della “Spagnola”, le proprietà che lo hanno reso così devastante sono state meglio comprese. Studi più recenti, basati principalmente su referti medici originali del periodo della pandemia, hanno rilevato che l’infezione virale non era molto più aggressiva di altre influenze precedenti, ma che le circostanze speciali (guerra, malnutrizione, campi medici e ospedali sovraffollati, scarsa igiene) contribuirono ad una superinfezione batterica. Quando una persona infetta starnutisce o tossisce, più di mezzo milione di particelle virali possono essere diffuse nelle vicinanze.
Gli alloggi sovraffollati e i massicci movimenti delle truppe impegnate in guerra affrettarono la pandemia e accelerarono la trasmissione e la mutazione del virus provocando un tasso di mortalità probabilmente più alto del dovuto. Una maggiore letalità acuita anche dalla modalità in cui si viveva nel periodo bellico: nella vita civile la selezione naturale favorisce i ceppi di virus miti. Quelli che si ammalano seriamente rimangono a casa e coloro che sono solo lievemente malati continuano con le loro vite, diffondendo una malattia non grave. Nelle trincee la selezione naturale risultava invertita: i soldati che avevano contratto una forma leggera rimasero dov’erano, mentre i malati gravi venivano inviati su treni affollati verso ospedali da campo altrettanto affollati, diffondendo il virus più letale. Insomma una concatenazione di cause tali che la malattia ridusse talmente tanto l’aspettativa di vita di inizio X X secolo che, nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa 12 anni. Nonostante la diffusa convinzione che le pandemie non guardino in faccia a nessuno e che colpiscano ricchi e poveri in ugual modo, purtroppo questa è solo una mezza verità: le classi più povere erano anche le più fragili considerando le condizioni di vita, nutrizione, igiene e salute. Alcuni studi hanno addirittura individuato una correlazione positiva tra il tasso di mortalità per “Spagnola” e analfabetismo.
Tuttavia, paradossalmente, anche l’influenza spagnola ebbe un bicchiere mezzo pieno: la virulenza della malattia determinò la scomparsa delle pandemie influenzali per i successivi 40 anni a causa dell’immunizzazione di gran parte della popolazione… sopravvissuta. Forse alla luce di quanto sopra, partendo da Peste, Vaiolo e Colera fino alla “Spagnola”, diventano più comprensibili le recenti epidemie di AIDS, Mucca Pazza e Sars. In sintesi, un microorganismo è la condizione necessaria, ma non sufficiente alla manifestazione di una malattia infettiva. Affinché questa si manifesti è necessario qualcosa d’altro. Questo qualcosa è dovuto a cause socio-ambientali (psicologiche, relazionali, affettive, sessuali, lavorative, economiche, igieniche, spirituali). Alcune hanno un maggiore impatto sulle ineguaglianze nella salute, come il reddito, l’educazione, la sicurezza, la casa, l’ambiente di lavoro, la socializzazione, i trasporti e la globalizzazione, altre hanno un’influenza più ristretta come i singoli stili di vita.
A questo punto però chi si aspettasse un parallelismo tra Influenza Spagnola e Coronavirus o Covid-19, come oramai tutti hanno imparato a conoscerlo, resterà deluso. Fatta eccezione per i sintomi dell’influenza o le complicazioni polmonari, i paragoni si fermano lì, tanto i contesti e i tempi sono distanti. In più se vado a prendere il mio sacro testo universitario di Microbiologia (1985), a proposito del Coronavirus, trovo scritto: “I Coronavirus sono un gruppo di virus isolati recentemente da lievi affezioni delle prime vie aeree mediante l’impiego di colture. Si tratta di un gruppo di virus ancora poco studiato e il cui peso nella patologia umana è ancora da definire”.
Io sono un uomo del secondo millennio. Lascio quindi ai più giovani esprimere ipotesi, valutazioni e giudizi in merito. Mi permetto solo un consiglio. La storia è contraddistinta da due insidie: fare del passato tabula rasa e avere il passato come unico orizzonte. La memoria collettiva è un processo selettivo. È un costrutto individuale e collegiale in cui le crisi equivalgono a periodi d’insegnamento che, se interiorizzati, ci aiutano a vivere meglio quelle successive. Ma chi non tiene conto della storia è destinato a ripetere gli stessi errori.
[1] E’ il numero dei casi di malattia registrati durante un dato periodo in rapporto al numero complessivo delle persone prese in esame.
[2] La numerosità e la forbice devono necessariamente essere presi con beneficio d’inventario. La pandemia si è diffusa in anni in cui gli strumenti di raccolta dati per calcoli epidemiologici e di statistica medica erano tendenzialmente incoerenti e di dubbia validità, accuratezza e solidità.
Articolo inserito nel numero di ottobre 2020 della creazione editoriale: Quaderni storici di Emilia Romagna al fronte.