AQUILEIA CAPITALE “SPIRITUALE” DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
INTRODUZIONE
Aquileia mater, un’espressione che condensa in sé quello che Aquileia sembra essere stata in età romana: madre della civiltà per una vasto arco di terre tra l’Italia nord-orientale , l’immediato oltralpe e l’Illirico nonché nel proseguire del tempo madre del cristianesimo per lo stesso areale geografico e umano. Una missione, questa seconda, che potè comunque svolgere proprio per l’importanza civile ed economica che essa già possedeva. Dunque fu un centro, visto come un faro di luce che rischiara le tenebre della barbarie e dell’errore, una metropoli , appunto, nello stretto senso della parola. Benché poi decaduta a piccolo villaggio e ridotta a paesaggio di rovine dalle vicende storiche, ha potuto continuare ad essere un centro e una madre. In questo caso per il mantenersi della sua funzione religiosa, rinovellata dopo il Mille dall’opera dei patriarchi, che vi costruirono la grande basilica e la maestosa torre campanaria, che ne fecero il cuore, almeno nominale, di una vastissima diocesi e in quanto tale fonte di contrastanti interessi politici volti al suo controllo. Aquileia sembra così fare, si parva licet componere magnis, lo stesso percorso di Roma. Dapprima vasta città con un ruolo politico e sociale grandissimo, poi, dopo la scomparsa di queste caratteristiche, comunque si mantiene, pur pesantemente ridimensionata, quale centro religioso di ampio respiro. Nel 1751 il patriarcato di Aquileia fu soppresso, ma questo non fece venire certo meno il ruolo profondo di simbolo che il nome aquileiese continuò a possedere. Proprio in quegli anni, poi, il rinnovato interesse archeologico per il recupero delle antiche testimonianze che il terreno custodiva dava nuove prospettive al ripensare la passata grandezza romana, fino ad allora per lo più ricordata solo come malinconica riflessione sulla caducità delle vicende umane. Il crescere nell’Ottocento del movimento risorgimentale e poi irredentista non poteva così non vedere ora in Aquileia un potente simbolo degli antichi diritti italici su queste zone e della grande civiltà latina , da contrapporre alla “barbarie” tedesca e slava. « L’umil borgo che vedi era una forte/ vasta città di prode itala gente/ di case e templi e baluardi e porte/e d’armi e d’arti e libertà possente» scriveva Riccardo Pitteri. E Angelo Vivante nella sua fondamentale opera sull’irredentismo adriatico non manca di sottolineare il ruolo che la romanità e Aquileia avevano nella mitologia di quest’ultimo : « Lo spirito classico, la tradizione di Roma, compagna inseparabile e spesso impacciante a ogni movimento di pensiero italiano, tornano a rammentare Augusto e la decima regione italica e il pianto di Aquileia “là nelle solitudini”». Un richiamo all’antico, alla romanità che infastidiva invece un irredentista intransigente come Ruggero Timeus : « L’irredentismo , il quale vuole la annessione di Trieste solo perché alcuni ruderi del colle di San Giusto hanno i loro primi modelli nel Foro o nei R.R. Musei di Roma, e avvolge le sue idee in una nebulosa retorica dove si fondono la fratellanza dei popoli, il diritto di nazionalità e le memorie di Roma imperiale e conquistatrice» . Secondo lui non bisognava volgersi al passato, ma invece vivere e lottare, necessariamente con la violenza , nel presente, per guardare al futuro e per costruirlo. Aquileia era un simbolo pure nel Friuli italiano naturalmente, e non poteva non essere così. Quando nel 1912 un comitato friulano raccolse una somma di denaro per acquistare un aeroplano da donare all’esercito italiano, volle che il velivolo fosse battezzato “Aquileia”, in ricordo della passata grandezza e certo nella speranza che la città romana e patriarcale si congiungesse alla patria. E comunque, al di là o al di qua di tutto questo, le vestigia antiche e medievali presenti nella cittadina in ogni caso rappresentavano un patrimonio storico importantissimo, da ammirare, studiare e salvaguardare. Naturale, quindi, che l’occupazione di Aquileia da parte delle truppe italiane nel maggio 1915 abbia subito fatto sorgere nelle autorità un grande interesse per la città romana, che fu quindi nel corso della guerra centro di attenzioni verso le locali presenze storiche e artistiche, ma anche simbolo ben sfruttato di propaganda patriottica. Di tale contesto si interessa questo studio di Giorgio Milocco, che già in altri scritti precedenti si era dedicato a scandagliare lo stesso argomento. Possiamo ricordare Aquileia- La gemma storica dell’Austria del 1993, Michele Abramich tra la riconferma e l’internamento (maggio 1915-marzo 1919) in «Aquileia Nostra» del 1999 e più recentemente (2019 e 2021) Don Celso Costantini ad Aquileia “Capitale spirituale” della Prima guerra mondiale. Appaiono qui i nomi di due dei protagonisti di quella stagione: l’Abramich, direttore del Museo, e don Costantini, nominato arciprete di Aquileia dalle autorità italiane dopo l’occupazione della cittadina nel 1915 e l’internamento del parroco don Meizlik. Il nome del terzo protagonista è quello di Ugo Ojetti, l’intellettuale romano scelto come sovraintendente del patrimonio storico-artistico dei territori occupati. Attorno a queste tre figure ruota il percorso del presente lavoro, che evidenzia il loro ruolo nel portare avanti i due ambiti d’azione , che prima si erano sottolineati, della conservazione-valorizzazione e della propaganda. L’Abramich in una posizione un po’ defilata, anche perchè persona mantenuta certo nella sua carica, ma sospettata di simpatie asburgiche e che dopo la guerra, per essere rimasto in loco all’atto della rioccupazione austriaca , verrà infatti allontanato e internato. Don Celso Costantini fu un po’ il trait d’ union tra l’aspetto più propriamente richiamantesi al passato romano (era un valente archeologo e anche conservatore della basilica) e quello religioso, entrambi volti a indirizzare un messaggio di fede patriottica e di fiducia nella causa. Le numerose cerimonie che si svolsero nella basilica e sul piazzale della chiesa, liberato da alcune casette che vi si trovavano, sono testimonianza di questo. A tale proposito interessante il fatto, che appare nelle lettere in questo lavoro riportate, che Ojetti nell’ottobre 1917 si lamentava che il duca d’Aosta per le cerimonie del 2 novembre successivo voleva trasformare la basilica in uno scenario “bizantino”. Come sappiamo a quella data in realtà ci fu altro a cui pensare. In ogni caso le celebrazioni aquileiesi troveranno in seguito il loro momento più elevato nel 1921 con la commossa partecipazione alla scelta della salma del Milite Ignoto, che proprio ad Aquileia si svolse . Una città che il duca d’Aosta, comandante la III Armata, aveva ordinato che i militari visitassero durante il riposo dalla trincea, per abbeverarsi di quel passato italico che ora veniva riscattato. Mussolini vi fu il 30 novembre 1916 e la chiamò «città dall’eterna impronta romana». Il complesso archeologico e religioso diventava emblema di italianità redenta. Don Costantini curò la sistemazione, accanto alla basilica, del cimitero dei caduti, il Cimitero degli Eroi, sacralizzandovi il loro sacrificio per la patria. Lo fece traslocando il cimitero paesano che vi preesisteva e questa è una delle ragione per cui il prelato continua a , diciamo, non essere apprezzato dagli aquileiesi, che vi hanno visto un oltraggio alle loro memorie, con una sostituzione che le considerava di minore importanza. A dire il vero lo spostameno del cimitero era argomento sollevato da tempo. Ad esempio, come appare proprio in questo volume, Ugo Ojetti già il 1 luglio 1915 parlava del suo trasloco , anche se non con lo scopo di sostituirlo con uno militare, ma di favorire futuri scavi. E per la stessa ragione questa ipotesi era stata fatta precedentemente, in epoca austriaca. Giovanni Battista Brusin la perorava nel 1913, proponendo che nel sito cimiteriale sorgesse poi un modesto edificio per raccogliere i ritrovamenti cristiani. Giorgio Milocco qui ricostruisce quindi i rapporti e l’interazione tra questi personaggi, approfondendo, come detto, quanto in precedenza già aveva scritto sull’argomento, ma vi aggiunge qualcosa di nuovo, una documentazione finora non utilizzata: il “carteggio Ricci” . Il ravennate Corrado Ricci presiedette dal 1906 al 1919 la Direzione di Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, segnalandosi per la fattiva attività di regolamentazione delle sovraintendenze e di decisa salvaguardia del patrimonio artistico. Per questo divenne bersaglio dell’ironia dei futuristi, che del “ciarpame” del passato non sapevano che farsene. Dunque Ricci era in una posizione apicale e fondamentale proprio per la difesa e la valorizzazione delle opere d’arte e dei ritrovamenti aquileiesi e tenne una discreta corrispondenza con i tre protagonisti della storia ( era piuttosto diffidente nei confronti di Abramich) che Giorgio Milocco qui dipana. Il suo prezioso archivio è conservato alla Biblioteca Classense di Ravenna. Milocco ha potuto così trarre da esso quanto riguardava le nostre zone e Aquileia in particolare, gettando nuova luce o per lo meno approfondendo quelli che furono gli intendimenti e alcuni risultati dell’opera di difesa e di valorizzazione del patrimonio. Lettere dalle quali emergono poi rapporti con altre figure importanti della cultura e della politica italiane. Dunque il lavoro di Milocco rappresenta un tassello importante per la conoscenza dei fatti e soprattutto delle dinamiche culturali e politiche che corrono dentro la Grande Guerra e che hanno lasciato poi traccia nei tempi seguenti, pensiamo al fascismo, ma che si sono riverberate fino ai giorni nostri. Un tassello che può essere anche uno stimolo a proseguire su questa strada, quella dell’approndimento degli aspetti più propriamente propagandistici, culturali, sociali e dei tentativi di costruzione del consenso che hanno accompagnato lo sforzo direttamente bellico del grande conflitto, che per il Friuli orientale ha rappresentato, o tentato di rappresentare, un netto cambiamento del punto di vista da cui guardare alla storia e alla realtà.
Stefano Perini
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